«Zoom, Skype o Facetime?». Olga Fernando è abituata a guardare il suo interlocutore negli occhi, che sia una star internazionale, un capo di Stato o un giornalista consapevole di quanto sia restia a parlare di sé stessa e della sua vita. Il nostro primo contatto risale al mese di gennaio, ma gli impegni di lavoro, le «missioni», e, naturalmente, lo scoppio dell’emergenza coronavirus ci hanno portato a rincorrerci per tre lunghi mesi fino a oggi, quando conversiamo su Whatsapp mentre il sole sta ormai tramontando ed è quasi ora di cena. «Preferisco sempre che ci si veda» spiega Olga dall’altra parte dello schermo, sfoggiando una camicia nera dal collo morbido, gli occhiali dalla montatura rettangolare che le scivolano sul naso e un sorriso radioso, che nasconde un’iniziale ritrosia a parlare. Di interviste, nei quarant’anni di carriera che festeggia nel 2020, ne ha rilasciate pochissime, ed erano quasi tutte incentrate sul suo lavoro di interprete: nonostante sia una presenza impegnata a «sparire» dietro all’ospite del quale è chiamata a interpretare i pensieri e le intenzioni, Olga Fernando gode di una popolarità a sé stante.
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Con l’arrivo dei social network la sua figura, ben nota non solo ai diplomatici, ma anche ai frequentatori dei Festival del Cinema e agli spettatori di programmi di successo come il Maurizio Costanzo Show, C’è Posta per Te, Amici e gli show del sabato sera di Fiorello, acquista un contorno talmente definito da portare qualcuno a pensare che la star non siano i Jude Law e i Chris Martin di turno, ma proprio lei. «Non ho una vita sui social. Sento quello che mi raccontano i miei figli e i loro amici. Ci sono dei colleghi che ogni tanto mi mandano qualche meme che gira in Rete, ma non ci penso tanto» spiega Fernando, nata a Roma da mamma toscana e papà dello Sri Lanka, all’epoca Ceylon. L’infanzia la trascorre tra la Capitale, dove frequenta da subito le scuole inglesi, e Londra, dove si trasferisce all’età di quattro anni per via del lavoro del padre restandoci fino agli otto. Poi il ritorno a Roma, lo studio, l’impegno e l’inizio di un percorso che la porterà a essere un membro fiero dell’AIIC e a incontrare personalità che hanno scritto la storia, dal Dalai Lama agli ultimi quattro Presidenti degli Stati Uniti, da Nelson Mandela agli ultimi cinque Presidenti della Repubblica. Con il coronavirus il suo lavoro si reinventa, cerca nuove soluzioni e guarda al futuro con ottimismo: «Sono un’ottimista di natura e voglio pensare che avremo un futuro diverso dal presente, sperando di aver riscoperto l’importanza di valori che avevamo dimenticato e di portare con noi i contatti che abbiamo avuto modo di ristabilire. Sono un po’ romantica in questo» racconta Olga Fernando senza perdere il sorriso, che mantiene dall’inizio alla fine dell’intervista.
Come ha vissuto la quarantena?«A casa con la famiglia, come tutti. Il risvolto positivo è che i miei due figli, che erano fuori, sono rientrati giusto in tempo per passare la quarantena insieme: è una cosa che mi ha riportato indietro negli anni, ai tempi in cui erano piccoli. La grande stava facendo uno stage di lavoro a Milano, è scesa a Roma il weekend del 21 febbraio e non è più rientrata, mentre mio figlio più piccolo era a Londra, dove è iscritto al primo anno di Chimica. Le nostre vite, come il nostro lavoro, sono cambiate molto nell’ultimo periodo».
In cosa è cambiato il suo lavoro?«Nel caso della simultanea, attualmente ogni interprete deve avere una cabina per sé, per rispettare le distanze, mentre normalmente in cabina siamo in due o in tre per ogni lingua. Ci si continua comunque ad aiutare e a indicare quando passare il microfono, magari con i gesti o scrivendosi. Poi ci sono le piattaforme, che però presentano le loro criticità, oppure gli interpreti possono lavorare presso un hub, una struttura che offre sostegno tecnico. In generale si sta cercando di evitare il collegamento da casa con una qualità audio molto precaria e disturbata: l’AIIC, l’Associazione Internazionale Interpreti di Conferenza in Italia alla quale appartengo, sta facendo molti studi e molte ricerche per cercare di trovare nuove soluzioni per il futuro».
Di certo sarà stato strano per lei fermarsi, visto che viaggiava molto per lavoro.«Il lavoro dell’interprete prende tante forme: lavoro per le Istituzioni italiane e straniere, per le aziende private e per il mondo dello spettacolo. I viaggi, in genere, sono quelli istituzionali, per conto della Commissione Europea, per le missioni e i viaggi di Stato, per le visite ufficiali del Presidente della Repubblica, del Consiglio e degli Esteri. Ho sempre amato molto viaggiare, fa parte del mio mestiere».
Un po’ di tempo per sé stessa è riuscito a prenderselo in quarantena?«Mi sono dedicata ai figli e alla cucina, ma ci tengo a rimanere sempre informata. Frequento tanti webinar con i colleghi perché chi fa questo lavoro deve sempre conservare un po’ di curiosità, la voglia di imparare qualcosa. A scuola amavo studiare e fare l’interprete mi consente di essere aggiornata su tutto. A mancare, però, è il contatto con le persone: anche alle conferenze internazionali o aziendali capitava di incontrarsi tra una sessione e l’altra per prendersi un caffè, chiacchierare. Nei corridoi si stabiliscono dei rapporti personali fondamentali che, certe volte, ti aiutano anche a superare delle divergenze che per qualche motivo c’erano state in sala. Nell’aspetto pratico, quando sei in cabina o in consecutiva hai bisogno di vedere la reazione dei partecipanti, studiare il linguaggio non verbale. Per me è imprescindibile».
Arriva la sera: cosa fa per rilassarsi?«Un po’ di tutto. Guardo serie tv e vecchi film. Ultimamente abbiamo ricominciato per l’ennesima volta la saga di Harry Potter: con i figli siamo partiti dalla lettura dei libri e poi, via via, sono arrivati i film che abbiamo visto e rivisto e che abbiamo in Blu-ray. Colgo anche l’occasione per sentire gli amici lontani, i famigliari. Ho dei cugini che vivono nello Sri Lanka».
Quando ci è stata l’ultima volta?«Tre anni fa, insieme alla mia famiglia. Un viaggio bellissimo, un Paese meraviglioso».
Sta leggendo qualche libro?«Sono quasi a metà di A God in Ruins di Kate Atkinson, molto bello. Poi, certo, leggo i quotidiani, i settimanali, The Economist».
Di esperienze da raccontare ne avrebbe molte: ha mai pensato di scriverlo lei un libro?«Mi è stato chiesto. È una cosa che i miei figli vorrebbero che facessi per loro, ma non so se vorrei, almeno non ora. Mi piace troppo fare questo lavoro per dedicarmi a qualcos’altro».
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Il suo lavoro le ha portato anche un’incredibile popolarità sui social: le fa piacere o le procura disagio?«È un riflesso del mio lavoro, visto che ho a che fare anche con il mondo del cinema, della musica e della tv e incontro tanti artisti che hanno bisogno, per vari motivi, di un interprete. In realtà non ci penso più di tanto: non avendo una presenza social, non so se è un bene o un male».
In Rete c’è stata una sollevazione popolare quando non è comparsa nell’ultima edizione di C’è Posta per Te: come mai era assente?«Ero in una delle mie missioni itineranti: quando prendiamo un impegno lo manteniamo, e capita di non essere disponibili. Succede: nessun mistero, questo è quanto».
Si ricorda la prima volta in tv?«In simultanea, solo con l’audio, agli inizi degli anni Ottanta in Rai, in trasmissioni storiche come Italia Sera e Domenica In. La mia prima volta in video, a fare la consecutiva, fu per Canale 5 al Maurizio Costanzo Show: era il giugno del 1989».
Chi era l’ospite che accompagnava?«Me lo ricordo bene perché non è mai arrivato: era bloccato in autostrada e, a un certo punto, se ne persero le tracce e non raggiunse mai lo studio. Io, però, ero stata invitata a posizionarmi sul palco e ad aspettare: fu una situazione molto surreale. Lui era Gene Anthony Ray, il Leroy di Saranno Famosi».
Ha vissuto a Londra per 4 anni, quindi immagino che sia stata una grande emozione per lei incontrare la Regina Elisabetta. Si ricorda la prima volta?«La primissima volta la mancai perché venne in Italia in viaggio di Stato, ma era la settimana in cui è nato mio figlio ed ero un attimo occupata. Il primo incontro con lei fu, poi, nel 2005, in occasione del viaggio di Stato di Carlo Azeglio Ciampi: dopo di allora l’ho incontrata tante altre volte. L’emozione, naturalmente, c’era: chi meglio della Regina può esprimere la lingua inglese nella sua interezza? È stata una bella sfida, ma anche una grande soddisfazione».
Lei è perfettamente bilingue: com’è stato, però, passare l’infanzia un po’ a Roma e un po’ a Londra?«È stato un dono crescere con due culture diverse, quella italiana e quella inglese. Tre, se ci aggiungo quella di mio padre, che era dello Sri Lanka».
Suo padre a casa parlava inglese?«Con mia madre in italiano e con me e mio fratello in inglese: siamo cresciuti parlando due lingue e, sia io che lui, abbiamo frequentato le scuole inglesi fin da piccoli».
A Londra abitava nello stesso quartiere di Roger Moore e di Paul McCartney. Li incontrava spesso?«Spessissimo, anche se all’epoca non ci pensavi: avevo quattro anni e a Londra ci sono rimasta fino agli otto. La cosa curiosa è che entrambi i miei figli hanno studiato lì: mi piace l’idea del ritorno, di questa circolarità».
Che ragazza era?«Ero molto vivace, ma più responsabile di mio fratello, che è un medico sportivo al quale sono molto legata. Non ho mai avuto difficoltà a fare amicizia, anche se all’inizio non volevo certo fare l’interprete».
Cosa voleva fare?«Da piccolina volevo fare la scrittrice o la giornalista. A Natale chiesi a mio padre di comprarmi il dizionario dei sinonimi, dei proverbi e delle rime che conservo ancora adesso: le parole mi hanno sempre incuriosito. Poi, visto che ero impegnata nel coro e nelle recite scolastiche, ho pensato di diventare un’attrice di teatro. Feci domanda e fui accettata per studiare teatro in Gran Bretagna, English and Drama, ma il caso ha voluto che incontrassi un ragazzo italiano che mi portò a scegliere di non trasferirmi: sette anni dopo ci sposammo e quest’anno festeggeremo il nostro trentottesimo anniversario di matrimonio. Mi iscrissi a Lingue e Letterature Straniere a La Sapienza, ci fu un intoppo di natura burocratico e, nel timore che avrei perso l’anno, mi iscrissi anche alla Scuola Superiore Interpreti e Traduttori, dove ho scoperto che tutte le cose che amavo erano lì. Ho poi completato entrambi i percorsi di studio ed è per questo che dico che fare l’interprete è stato il mio non-piano-C».
Non ha mai avuto il rimpianto della recitazione?«Se ci pensa è una cosa che faccio già: uso e controllo la voce e, attraverso l’espressività, mi assicuro che chi parla non venga diluito troppo. È una cosa che vale soprattutto per la letteratura: ho avuto il piacere di lavorare alle presentazioni di libri di diversi scrittori e stare a stretto contatto con chi esercita la parola come mestiere è eccezionale».
I suoi scrittori preferiti?«Hanif Kureishi e Ian McEwan, che ho avuto la fortuna di incontrare più volte. I miei scaffali sono pieni di libri di scrittori con i quali ho lavorato, sono le mie medaglie, i miei piccoli trofei. Li conservo insieme ai badge più importanti».
Dove li conserva i badge?«Hanno un loro posto nello studio, che andrebbe riorganizzato. Una cosa che avrei dovuto fare in quarantena era mettere un po’ d’ordine».
Di personaggi ne ha conosciuti tanti: chi avrebbe voluto incontrare?«Stevie Wonder e Paul McCartney, che è il mio idolo. L’ho interpretato una sola volta, ma eravamo alla radio. Ho sempre avuto una grandissima ammirazione per i Beatles fin da quando ero bambina. Direi, però, che non posso lamentarmi: ho avuto il privilegio di incontrare personaggi straordinari come Nelson Mandela: sono stata molto fortunata».
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Mai un cruccio?«Uno: quando Maurizio Costanzo intervistò J.K. Rowling, che era appena uscita con il primo libro di Harry Potter, e non le chiesi né l’autografo né la foto: i miei figli ancora me lo rinfacciano ma, d’altronde, non si sapeva cosa ne sarebbe stato dopo. Mi è subito sembrata una donna di grande intelligenza e carisma».
L’autografo, invece, a chi lo ha chiesto?«In genere è una cosa che si preferisce non fare per una questione di discrezione, per non approfittare del grande privilegio nel quale ti trovi. Gli scrittori, con cui spesso lavori tutto il giorno, in genere fanno una dedica al giornalista che gliela chiede e poi guardano me: “e lei non lo vuole?”. L’autografo, però, l’ho chiesto a una persona che forse non si aspetterà: Luciano Pavarotti. Lì non ho potuto resistere. All’epoca seguivo il Pavarotti & Friends e ricordo che me lo fece sul menù del suo ristorante al circolo ippico. Ci ho messo, però, un po’ a farlo: non glielo chiesi la prima volta che lo incontrai. Ho il ricordo di un grande uomo».
Una cosa che non diremmo mai di lei?«Amo molto il mondo Disney, a casa ho tutta la collezione. I miei figli spesso mi prendono in giro e mi dicono che assomiglio al personaggio di Joy in Inside Out: sempre ottimista, con la parlantina, insopportabile. Forse hanno ragione. I miei amici dei tempi della scuola, scherzando, mi dicono che ho trovato il lavoro perfetto per me: mi pagano per parlare».